Insegnare a nuotare a una foca

Dunque questo librino è uscito oggi. Che cosa non è, in qualche modo l’abbiamo già detto. Proviamo a mettere insieme due parole su che cosa è.

La storia è che qualche tempo fa Utet (sì, quella dell’enciclopedia in novecentocinquantasei volumi che consultavamo prima che arrivassero i DVD dell’Encarta e molto prima che inventassero Wikipedia, e che tanti bei voti ci ha procurato alle medie), insomma Utet mi ha proposto di scrivere un libro sulla lingua islandese e io, che questa lingua tuttora fatico ad addomesticarla, ho chiesto del tempo per capire se avessi qualcosa di sensato da dire in merito: se ci fosse un modo per trasformare l’idea dell’editore in un’impresa che sentissi mia.

Ho pensato allora che lavorare a un libro sulla lingua islandese potesse essere una buona occasione per fare i conti non tanto con la mia capacità di parlarla, quanto con il senso del tempo che continuo a trascorrere nella terra su cui viene parlata, tra le persone che la parlano. “Insegnare a nuotare a una foca” è diventato così un modo di confrontarmi con una scelta – quella dell’Islanda quale dimora elettiva – che resta tra le più qualificanti della mia esistenza ma che, più di un lustro dopo, si è avventurata oltre i contorni sognanti del caro Libro dei vulcani.

Per tramite di certe parole strane, di alcuni modi di dire, di imperscrutabili norme grammaticali e di tanti incontri illuminanti, ho provato a mettere in ordine – un ordine libero, in cui a un paragrafo sul Nobel per la letteratura segue uno dedicato ai nuovi energy drink arricchiti di pelle di merluzzo – gli aspetti dello stile di vita e della visione del mondo islandesi che in questi anni mi hanno conquistato, incuriosito, deluso, fatto pensare: che mi hanno cambiato, in definitiva.

Mi sono anche se non soprattutto divertito, scrivendo questo libro. Ho guidato, ingerito decalitri di caffè, smistato pecore, mangiato gelati. Ho pranzato con i meteorologi di riferimento dell’isola, bevuto birra italiana con una giornalista-veggente, scambiato diverse email con l’autrice di un libro di seicento pagine sugli incredibili nomi di persona islandesi e molte di più con Silvia Cosimini, che ha pazientemente tappato le innumerevoli falle del mio islandese.

Ho portato a casa, verso la fine del libro, anche una lunga chiacchierata con Jón Kalman Stefánsson, che mi ha ricordato che le parole – l’unità di misura elementare di ogni storia che ci raccontiamo – sono per alcuni esseri umani l’unica forma di liberazione possibile. Ci sarà modo di riparlarne, mi auguro. Intanto grazie sin d’ora a chi si incuriosirà – takk, anzi 🦭

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